#Suini, tra la realtà e la fantasia c’è di mezzo la pubblicità

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La difesa del comparto suinicolo è stata di recente presa a cuore da parte di Progetto Nazionale. Sinceramente non ricordiamo nessuna forza politica che abbia mai parlato di suinicoltura. Dal sito di Progetto Nazionale abbiamo appreso un’analisi lucida, completa ed incisiva sulla crisi del comparto suinicolo italiano. Auspichiamo vivamente che anche altre forze politiche parlino dei reali problemi che tutti i comparti del settore primario stanno attraversando.

L’Italia è uno dei più importanti produttori comunitari di carni suine (insieme a Germania, Francia, Spagna, Polonia, Danimarca e Olanda), ma da qualche anno il settore suinicolo nazionale sta attraversando una crisi drammatica (soprattutto in relazione alle carni di pregio), con aziende che continuano a chiudere i battenti in Emilia-romagna, in Veneto, in Friuli Venezia Giulia, in Lombardia, in Piemonte, in Toscana…
I dati ci indicano una continua e sensibile diminuzione degli allevamenti e dei capi allevati, con ricadute pesantissime nel mercato occupazionale che interessa addetti negli allevamenti, nell’industria di trasformazione e nei servizi.
Le cause sono molteplici. Tra i vari elementi che hanno concorso negli anni a determinare questo disastro, che rischia di condurre il settore verso un crack definitivo, possiamo elencare:
– l’aumento dei costi di produzione primaria (in particolare delle materie prime utilizzate per l’alimentazione degli animali – cereali e semi oleosi – e quello delle risorse energetiche) con le speculazioni finanziarie;
– l’aumento della tassazione, senza che si registrasse un aumento dei prezzi pagati ai produttori;
– il mancato riconoscimento, nelle quotazioni nazionali dei suini, del differenziale di qualità dei suini dedicati alle denominazioni italiane rispetto alle produzioni europee;
– gli squilibri di filiera, con una grande penalizzazione dell’allevatore rispetto alla grande distribuzione commerciale e alla trasformazione industriale;
– il fatto che le carni suine sono tra le meno tracciabili in Europa, con obblighi in etichettatura risibili per gli insaccati e per gli alimenti trasformati (quelli dove si verifica più spesso l’inganno del falso “Made in Italy”), e solo un po’ più stringenti per le carni fresche: una diffusa mancanza d’informazione che rende indistinguibile il prodotto autenticamente italiano;
– la concorrenza sleale da parte di quei Paesi UE (solitamente quelli appena entrati) che non rispettano il cosiddetto “pacchetto igiene”: una serie di regolamenti comunitari che gestiscono tutta la filiera della sicurezza alimentare, da chi coltiva i campi ai produttori di mangime, fino al ristorante; il che incide, oltre che sulla qualità, anche sui costi da sostenere;
– la colonizzazione nell’ultimo decennio da parte delle multinazionali del settore (inizialmente soprattutto l’americana Smithfield Foods (1), poi acquistata dal gruppo cinese Shuanghui International, oggi “WH Group”, di gran lunga il principale produttore di carne suina al mondo) di Paesi dell’Est (Polonia e Romania in primis) dove, attratte dai costi minimi, dai controlli labili, da normative su ambiente, lavoro, standard di allevamento e benessere dell’animale molto più “morbidi”, hanno rilevato immensi stabilimenti in disuso (eredità del periodo comunista), spesso con il sostegno economico della Banca Europea per la Ristrutturazione e lo Sviluppo (EBRD);
– i sistemi di “nazionalizzazione” delle carni che si basano sulla sosta dei capi anche solo per pochi giorni in un dato Paese, che hanno reso Europa e Italia molto più permeabili all’importazione di carne extra UE che ha standard molto più bassi rispetto ai nostri (col paradosso che ci troviamo in Umbria, a Norcia, maiali che arrivano dalla Turchia…a proposito di Indicazione Geografica Protetta (2) e di tipicità…).
A queste cause, vanno aggiunte anche le responsabilità degli operatori nazionali, con l’eccessiva frammentazione delle rappresentanze del settore e l’incapacità storica di fare lobby in sede UE, contrariamente ai produttori-concorrenti del Nord Europa.
In conseguenza a quanto sopraesposto, circa la metà della carne di maiale utilizzata in Italia è di provenienza estera; nonostante l’imponente export di salumi italiani, il settore in questione risulta da anni in pesante deficit, schiacciato da ingenti quantitativi di carni fresche e congelate importate che finiscono anche nelle filiere dei nostri salumi tipici, grazie anche ad una tracciabilità falsificata.
Chiedere lo stop alle importazioni di carni di maiale estere, alla concorrenza sleale a bassa qualità, lotta serrata alle contraffazioni e obblighi di trasparenza nei marchi e nell’etichettatura d’origine è il minimo per la tutela di migliaia di posti di lavoro, della genuinità e della tipicità nazionale!
Va sostenuto il ciclo del nato, allevato e macellato nello stesso Paese, anziché finanziare chi danneggia la competitività nazionale.
Intanto pubblicità ingannevoli e disinformazione diffusa mettono nei nostri piatti sempre più “Made in Italy” tarocchi…

Progetto Nazionale
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Note
(1) La stessa Smithfield è anche azionista di maggioranza del colosso spagnolo Compfrio Food Group, leader europeo per le carni confezionate, che a sua volta è proprietario del più noto marchio di norceria italiana, Fiorucci.
(2) I prodotti di origine protetta (Dop), come per esempio il prosciutto di Parma, sono gli unici che impongono l’utilizzo di capi nati e cresciuti all’interno dei confini nazionali.

Dr. Nicola Gozzoli
Presidente Insieme per la Terra